Tossicodipendenze: un approccio strategico

 

 

L’affiancamento di un lavoro psicoterapico a terapie sostitutive o di mantenimento con metadone rappresenta ormai una prassi consolidata di gran parte dei servizi per le tossicodipendenze presenti sul territorio italiano.

La psicoterapia che lavora sulla psicopatologia sottostante alla dipendenza aiuta questi pazienti ad assumere un cenno di controllo sulle tempeste psichiche che hanno dentro.

 

 

 

di David Scaramozzino, Psicologo, Psicoterapeuta Strategico

La psicoterapia che lavora sulla psicopatologia sottostante alla dipendenza aiuta questi pazienti ad assumere un cenno di controllo sulle tempeste psichiche che hanno dentro.

 

Il disturbo di un tossicodipendente viene da lontano, ha sicuramente radici nell’infanzia ma è anche vero che l’esigenza di recuperare un’esistenza sana non può attendere sempre i tempi di cui, consuetamente, si appropria la psicoterapia.

In situazioni particolarmente critiche, in concomitanza di altre patologie o di tossicodipendenza in gravidanza o di contesto sociale fortemente disagiato del paziente, la disassuefazione dalla sostanza rappresenta un’urgenza.

La valutazione e il trattamento si svolgono “lottando” con la persona per liberare, nel minor tempo possibile, le competenze e le risorse utili a svolgere una vita responsabile e sana.

L’applicazione del metodo psicoterapico breve strategico nel trattamento delle dipendenze patologiche da sostanze stupefacenti e da alcool è ancora in fase di evoluzione ma i risultati ottenuti con questa tecnica fanno presagire un futuro in questa direzione, sia per:

·         l’esigenza del sistema sanitario che si trova di fronte ad un aumento continuo della domanda, con l’evidente urgenza di usufruire di un trattamento più breve ed alla portata di tutti;

·         sia perché l’approccio si dimostra molto plastico e adeguato a lavorare con una grande varietà di consumatori, di diversa estrazione sociale ed economica e di differenti culture, proprio in virtù della sua centratura sul cliente.

È stato dimostrato come la centratura sul paziente e la filosofia della cooperazione, punti di forza dell’approccio strategico, nella relazione cliente-terapeuta, aumentino notevolmente la “compliance” (Miller, 1985) probabilmente perché, lavorando in questo senso, la formazione del “rapport” è molto facilitata, così come più semplice sarà stabilire obiettivi chiari e concreti, non frutto più della fantasia indottrinata del terapeuta ma delle esigenze reali del paziente.

Nel modello tradizionale di trattamento delle dipendenze, al paziente viene detto quello che deve fare per guarire e tutti coloro che si rifiutano o che non traggono beneficio sono considerati “resistenti”.

Questo approccio tradizionale parte dall’ambiziosa idea che il modello è infallibile, come per gli Alcolisti Anonimi, e chi non guarisce viene etichettato talvolta come un paziente difficile, co-dipendente e resistente.

C’è il rischio, in tal modo, di operare processi di selezione della domanda potenziale, funzionali più alla conferma del modello teorico prescelto ed alle esigenze della struttura che ai bisogni dell’utenza.

Watzlawick, per dare una spiegazione critica a tale fenomeno, elabora il concetto di “proposizione autoimmunizzante”, ossia che: “troppo spesso scopriamo che i limiti inerenti ad una determinata ipotesi sono attribuiti ai fenomeni che quell’ipotesi avrebbe dovuto spiegare”.

Il modello tradizionale, in particolare i trattamenti che hanno come unico obiettivo l’astinenza e la disintossicazione, attribuiscono ad alcuni pazienti delle caratteristiche negative che invaliderebbero il trattamento.

Al contrario, l’approccio strategico breve ripone il focus della terapia sul paziente, attenendosi al suo reale disagio e ai suoi reali bisogni, che possono essere, almeno inizialmente, lontani dall’astinenza dall’alcool o dalla disintossicazione totale dalle sostanze illecite. Se il trattamento fallisce è perché entrambi hanno fatto qualche errore!

Lo psicoterapeuta stratega, utilizzando qualsiasi cosa portata dal cliente, tende ad interpretare tutti i comportamenti del paziente come messaggi che offrono un’importante informazione retroattiva a correzione dell’intervento. In quest’ottica, anche la resistenza diventa utile a raggiungere gli obiettivi terapeutici.

La resistenza non solo sarà attentamente ascoltata ma utilizzata, in aperto contrasto con le ideologie tradizionali (Petruccelli F., Marziale M., 1999).

Se un cliente torna alla seduta successiva senza aver adempito alla prescrizione comportamentale, non sarà etichettato come “resistente” ma il suo gesto diviene un messaggio metacomunicativo per il terapeuta.

Il compito potrebbe esser stato eccessivo o lontano dalla visione del mondo del cliente, con il terapeuta che si mette costantemente in discussione, usufruendo di supervisioni e formazione continua.

L’approccio strategico di matrice Ericksoniana opera tenendo lo sguardo fisso sul “qui e ora” al fine di produrre un cambiamento comportamentale futuro.

Il terapeuta stratega che si sofferma sulle indagini familiari e retrospettive sa che serviranno solo da interpunzioni, che potranno favorire la costruzione del rapport e la comprensione dei modelli rappresentazionali interni del paziente, ma sarà consapevole del fatto che sono del tutto arbitrarie e che la realtà di questi pazienti e delle loro relazioni familiari non si rifà ad una logica di causalità lineare.

Come sostiene Watzlawick e al. (1967) le relazioni nella famiglia tossicodipendente e del tossicodipendente seguono il principio di circolarità e ciò “…ci costringe ad abbandonare la nozione che l’evento A, per esempio, viene per primo e che l’evento B è determinato dal verificarsi di A…”.

Il tossicodipendente entra nel vivo della terapia con l’utilizzo delle prescrizioni comportamentali con le quali il terapeuta si propone di aiutarlo ad attivarsi e a muoversi (Zeig, 1980). Le prescrizioni generano l’azione fuori dalla seduta terapeutica, nel contesto quotidiano del paziente, dove dovrà avvenire realmente il cambiamento e dove  verrà più frequentemente messo alla prova.

L’attesa indefinita dell’insight che caratterizzava le sedute psicanalitiche viene qui sostituita dall’azione, dal concordare con il paziente procedure e compiti da portare a termine.

Anche mediante le prescrizioni il paziente può arrivare all’insight attraverso l’apprendimento di nuove capacità e strategie, prendendo coscienza dei meccanismi e dei suoi comportamenti disfunzionali che reggono la dipendenza, spesso alimentata da tentativi di soluzione fallimentari che fino ad allora egli stesso ha messo in atto.

Uno degli obiettivi della terapia è quello di “allargare l’area della coscienza” o, più concretamente, di far sperimentare al paziente delle capacità superiori che non pensava di possedere. Si tratta di ampliare la percezione dei propri limiti che fino ad oggi ha coinciso con i fallimentari ed estenuanti tentativi di risolvere il problema da solo.

Nell’ambito delle tossicodipendenze, concordare gli obiettivi con il paziente in un’ottica di cooperazione e centrare la terapia sul paziente, offrendogli una notevole autonomia e libertà all’interno del setting, può essere pericoloso per un terapeuta privo dell’esperienza necessaria.

È doveroso porre attenzione, agendo in tal modo, a non rinforzare modalità trasgressive e connivenze devianti, contrastando i tentativi di manipolazione.

Il paziente dipendente, inoltre, ha la tendenza a relazionarsi con una equipe multiprofessionale in maniera scissionale, identificando in alcuni operatori (spesso più morbidi e permissivi) la parte “buona” del trattamento e in altri la parte “cattiva”, riuscendo talvolta a creare dei contrasti tra le varie figure.

Per questo, è assolutamente necessario che il terapeuta, insieme a tutti i professionisti che fanno parte della equipe che lavora sul caso, partecipino a sedute frequenti di supervisione al fine non solo di monitorare l’andamento del lavoro svolto fino ad allora ma anche di controllare tali pericolose dinamiche e i vissuti controtransferali di ognuno (Covri C., 2004).

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